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Michela Palermo & Palermo Publishing: una piccola intervista a proposito delle sue avventure con il mondo della carta stampata

Michela Palermo è una fotografa, designer e editrice, con cui condividiamo la passione per l’editoria d’arte e di ricerca, una tendenza alla curiosità per il mondo della carta e una bella amicizia. La presentazione del libro di Allen Frame, Whereupon, insieme a quella della fanzine realizzata in occasione dell’installazione in mostra da Leporello fino al 12 settembre 2024  è stata un’occasione per trovarci a parlare insieme della lavoro legato alla decisione di fondare la casa editrice Palermo Publishing

CC Quando è scattato il tuo amore per quello che in inglese si chiama Printed Matter?

MP Sono nata in Italia, nel 1980, in una famiglia borghese. Condividevo con mio fratello l’abbonamento a un fumetto che aspettavo tutte le settimane, avevo una paghetta che spendevo in figurine e poi riviste nell’unico giornalaio del paese. A casa c’erano libri, cataloghi, enciclopedie e circolavano mensili, settimanali, quotidiani, brochures di viaggi esotici, il catalogo del Postalmarket, il Talismano della Felicità, gli album di fotografie, quello del matrimonio dei miei, di noi che crescevamo, con le foto dei compleanni, delle gite e delle feste. Andavo al liceo con il dizionario, collezionavo 100 pagine 1000 lire. E poi i flyer delle manifestazioni e dei concerti, il biglietto dell’interrail, le dispense all’università, scrivevo le lettere. Credo buona parte della mia “educazione sentimentale” si sia formata sulla carta.

Ephemera I, collezione privata Allen Frame, Palermo Publishing, 2024

Sei una fotografa, ma il modo in cui ti approcci ai libri ha un background legato al graphic design…

Più che la grafica mi appassiona l’intera progettazione: il disegno editoriale, l’utilizzo dei materiali, le tecniche di stampa, l’allestimento e tutti quegli elementi che oggi permettono di parlare di oggetto-libro. Prima di iniziare a fotografare  ho studiato Scienze Politiche e la mia prima lezione di Storia del Pensiero Politico Contemporaneo si è aperta con una lettura di Le parole e le cose di Michel Foucault. 

Il libro inizia con una descrizione minuziosa di Las Meninas di Velasquez e del gioco di rappresentazione che il quadro afferma. Mi interessa quello che in apparenza non si vede, e il design di un libro è un buon design se scompare nel lavoro che custodisce e lo amplifica.

L’invisibile di solito ci aiuta a metterci in contatto anche con altri sensi, se penso ai libri i primi che mi vengono in mente sono il tatto e l’udito, ma anche il più misterioso di tutti, il sesto senso. Come questi sensi, o anche altri, entrano in gioco nel tuo processo di progettazione?

Per me i libri sono dispositivi in grado di riprodurre esperienze, sensazioni, geografie. Devo riconoscermi nella ricerca, nella storia, nella scrittura per diventare interprete -o per capire chi possa interpretarlo per me- e credo di farlo con una specie di istinto, una sorta di incantesimo o innamoramento che dir si voglia. Poi, nel processo creativo, ho imparato ad andare per tentativi: di solito quando penso un libro, immagino un’idea e il suo contrario e cerco subito il confronto con la carta, banalmente stampo delle maquettes. Cerco il peso, la dimensione, le proporzioni nella pagina, e mentre costruisco, assemblo, e da qualche parte nella mia testa accade l’opposto, scompongo, segmento, elimino. Devo dire che la mia esperienza come fotografa negli anni dei social media, mi ha reso felicemente “iconoclasta”. Questa “irriverenza” nei confronti delle immagini mi aiuta a far emergere altri aspetti del narrare  e  un discorso più corale che il libro, come oggetto, incarna benissimo. Un libro è un insieme di cose. È plurale. 

Butch & Fabio, 1979, NYC. Da Whereupon, Allen Frame, Palermo Publishing, 2023

Se penso al mio modo personale di approcciarmi alla fase embrionale della progettazione di un nuovo libro, riconosco una serie di “abitudini” – chiamiamole così- piuttosto che una vera e propria metodologia, forse anche una serie di rituali. E tu, come dai il là a questo processo? 

Non inizio. Nel senso che faccio talmente tanti tentativi prima, che quando poi decido di intraprendere un progetto, ci sono alcune cose che si sono già definite per sé. Non so se mi sono spiegata ma il lavoro per me arriva dopo una serie di conversazioni, ricerche, confronti che mi mettono poi su una specie di binario che seguo.

Cosa ti ha spinto ad aprire una casa editrice?

Non ho aperto una casa editrice all’improvviso. Per più di 10 anni ho frequentato redazioni, workshop, librerie, spazi indipendenti, fiere, festival, tipografie. Ho visto il mio lavoro pubblicato in  giornali, magazines e cataloghi, autopubblicato i miei lavori, quello degli altri, ho disegnato progetti editoriali per commissione, collaborato con artisti e curatori, conosciuto e osservato altri editori o esperienze editoriali. Nel 2021, dopo la pausa del Covid (che ha sicuramente rallentato moltissimo i miei scambi professionali e mi ha confrontato con una specie di vuoto creativo) e soprattutto, dopo mesi in cui credo le esistenze  di tutti sono state inghiottite da questa continua mediazione del digitale, ho iniziato a pensare in maniera più concreta all’esperienza e al rischio anche, di una casa editrice, di occuparmi non solo della mia ricerca ma di metterla in dialogo con il lavoro degli altri, per pubblicare dei libri, dei multipli e riuscire a distribuirli. Ho iniziato a valutare le possibilità, l’impegno economico e creativo e a immaginare, perché credo che fare l’editore comporti uno sforzo di fantasia importante.

SUDDENLY (2020), SORRY FOR YOUR LOSS (2021), BOY ON A DOLPHIN (2022), Allen Frame
design Michela Palermo, selfpublished

Una fantasia che a volte comporta anche il fatto di confrontarsi con una possibile linea editoriale. Qual è la tua, se c’è? E in generale come immagini Palermo Publishing fra – diciamo- dieci anni?

Mi interessano le arti visive e mi piacerebbe pubblicare poesie e testi critici. Vorrei riuscire a crescere organicamente, mantenendo piccole edizioni con particolare attenzione alla qualità nella produzione e nella rete distributiva, lavorando per “prossimità”, che credo significhi andare incontro a quello che sento affine. Tra dieci anni vorrei rifare con te quest’intervista, perché penso che l’editoria sia la costruzione di infinite conversazioni più che di un’unica opportunità e vorrei crescere con il lavoro dei professionisti e degli artisti che mi sceglieranno.

Perché questo libro di Allen Frame?

Quando ho iniziato a ragionare l’opportunità della casa editrice, ho cercato linguaggi in cui mi riconoscessi, sensibilità artistiche a me vicine. Allen Frame lo conosco dal 2008, quando sono stata sua allieva nel programma di Creative Practices all’International Center of Photography. Da allora, siamo sempre rimasti in contatto. Allen ha curato il mio lavoro fotografico e avevamo già lavorato a una serie di sue zines. Nel 2021 era uscito Fever, una sua monografia con degli scatti  a colori solo del 1981 con Matte Editions, un editore indipendente americano e del suo lavoro precedente esiste solo una pubblicazione Detour,  pubblicata  nel 2001 da KEHERER. Quell’’autunno ero tornata a vivere  a New York e la galleria di Allen proponeva una mostra in seguito alla pubblicazione  di FEVER, con una serie di scatti inediti in bianco e nero. Ho visto la mostra con Allen, c’erano 17  foto esposte. Il suo lavoro in bianco e nero è stato sempre un’ispirazione per me.  Ho chiesto se avesse voluto fare un  libro insieme, se avessimo potuto cercare nel suo archivio e espandere il lavoro e poi io mi sarei impegnata nel resto: il disegno, la produzione e la distribuzione. Allen mi ha detto di si.  Abbiamo lavorato insieme tutto l’autunno. Alcune foto non erano mai state stampate e poi per ogni foto c’era una storia, la sua e quella dei suoi amici, quegli anni che devono essere stati meravigliosi e terribili.  La fotografia di Allen e New York sono due luoghi molto familiari -se così posso dire- e non mi sono sentita timida nel trovare loro spazio nel bianco delle pagine.

Cosa racconta Whereupon

È il suo archivio personale dal 1977 al 1992. Le sue cotte, i suoi amici, i suoi coinquilini, la sua vita nel West Village e nell’East Village negli anni ’80. Penso che sia una lettera d’amore per New York, dove sbarcavano tutti, e i sogni che la città racchiudeva; per la  generazione a cui appartiene Allen, molti dei quali sono morti prematuramente di AIDS. E penso questa tensione rimane latente nelle sue immagini mentre diventano più cupe e sommesse nel corso degli anni.

Ci sono tante vite che si intrecciano in questo lavoro, eppure sfogliandolo non provo la necessità di sapere niente di nessuno di loro, come se le relazioni che si esprimono attraverso i corpi e il loro rapporto con lo spazio fossero sufficienti. C’è anche quella dimensione di distanza del tempo che emerge e ha una grande forza nello sfogliare questo libro.

C’era una dimensione direi quasi utopica in quello che la generazione di Allen ha vissuto. E sicuramente di rottura rispetto una serie di convenzioni culturali e sociali che ordinavo le esistenze. Penso che questa visione è probabilmente il lascito più prezioso di quegli anni.

Ci puoi parlare degli inserti a colori e delle strategie di layout?

Negli anni ’80 Allen lavorava con il teatro, come attore e poi come regista e critico. Abbiamo conversato spesso di come nella fotografia così come nel teatro esista una ricerca del gesto, uno studio sulla figura e lo spazio che è intorno. Mi aveva parlato di queste diapositive realizzate durante le due rappresentazioni che aveva diretto, a New York e a Berlino, da un adattamento del testo bellissimo di Sound in Distance di David Wojnarowicz. L’idea di avere delle fotografie di scena mi è sembrata un controcampo interessante per la narrazione del libro fatto di scatti del quotidiano. Il colore avrebbe restituito una temperatura a tutte le immagini. Delle sessioni a colori, ne serviva una terza ed è venuta fuori questa sequenza sulla spiaggia. Bellissima, nella sua semplicità. Ci sono Frank, Cady e Noland -tutte persone molto care ad Allen- che passeggiano sulla spiaggia di  Coney Island. Si muovono insieme al fotografo, escono dal campo, non si lasciano mai. E per gestire gli ottavi in stampa, ho specchiato e spezzato le immagini, creando delle ripetizioni, come dei glitches, perché a un primo sfoglio forse non è nemmeno così evidente questa ripetizione. Ci piaceva l’idea dell’immagine che si ripetesse, come in un deja vu.

Come hai deciso le caratteristiche tecniche del libro?

È un “album di famiglia”, custodisce dei ricordi e una storia collettiva importante. C’è questa immagine dei bisbigli all’inizio, di cose dette all’orecchio o al telefono, che mi faceva continuamente pensare al velluto, a quello del sipario del teatro o delle poltrone dei cinema, uno spazio liminale fra la realtà e la finzione. La carta  è un usomano e invece le immagini a colori sono stampate su una  patinata, per creare uno stacco nello sfoglio. Il testo di Allen “In the wings” (espressione  che in inglese si usa per indicare quello che succede nelle quinte del teatro) è scritto in prima persona. Lo abbiamo voluto alla fine. Il testo restituisce finalmente una voce “sola” a un lavoro pensato sin dall’inizio in  quarta persona: nell’editing delle fotografie, Allen potrebbe essere sempre uno dei soggetti, talmente sono vicini. Anche le ultime foto di Jane Warrick, che abbiamo utilizzato per accompagnare il testo di Allen, vedono Allen soggetto con Frank e Butch mentre chiacchierano. Ci piaceva, ci sembrava ancora un altro piano narrativo nella costruzione del libro.

Ti va di dirci qualcosa di più su questo discorso in “quarta persona”?

Allen è l’autore delle fotografie ma si muove in un gruppo di amici/artisti le cui vite sono state intrecciate per molto tempo. E’ questo continuo riferimento a una comunità che credo abbia reso la sua esperienza umana e artistica di incredibile valore. Forse uno dei ritratti più belli del libro è quello di Darrel (Ellis). Darrell aveva chiesto a Allen di fotografarlo perché avrebbe utilizzato il materiale nella ricerca pittorica e di collage. Darrell Ellis è scomparso prematuramente a causa dell’AIDS e Allen per anni si è occupato del suo archivio, che finalmente è emerso e ha avuto importanti riconoscimenti come una retrospettiva al Bronx Museum l’estate scorsa a New York e poi in altre importanti istituzioni nordamericane.

Hai stampato con L’Artiere, a Bologna, puoi raccontarci qualcosa in più di quest’esperienza?

Ci tengo a  stampare in Italia per tutta una serie di ragioni. L’Artiere ha una storia importante, Gianmarco Gamberini ha lavorato mettendo a disposizione una serie di conoscenze ed io ho imparato un po’. È molto performativo il processo di stampa: ci sono dei limiti tecnici e dei margini di errore e in quell’equilibrio è possibile raggiungere dei risultati. E bisogna sapersi fidare.

In occasione della presentazione del libro qui da Leporello,  abbiamo deciso di esporre una serie di riproduzioni di ephemera collezionate da Allen nel corso degli anni. Che sono oggetti di fascinazione anche per te.  Perché?

Probabilmente per quel “lessico familiare” di cui accennavo alla prima domanda. Appartengo per un colpo di coda a quel tempo. La collezione personale di ephemera di Allen è fatta di cartoline, biglietti personali, inviti con indirizzi, flyer di mostre e performance. A guardarli con attenzione sono una serie di documenti dei fatti accaduti, degli incontri cercati e mancati. È un altro livello di lettura che emerge e che risuona nelle pagine del libro.

E hai realizzato anche una fanzine. Come, perché?

Per le presentazioni abbiamo pensato una serie di eventi che potessero coinvolgere il pubblico sull’aspetto plurale del lavoro di Allen. E nella fanzine abbiamo stampato il footage della performance avvenuta a New York realizzato da Frank Franca, le riproduzioni degli ephemera allestiti poi da Leporello, un testo scelto tra i monologhi di D.W. che avrebbero fatto parte della serata di reading da Supernova, due disegni su D.W. di James Romberger, il poster dell’ultima performance realizzata a Brooklyn. Volevamo celebrare quelle esperienze e che ne restasse una traccia, ed è venuta fuori una fanzine, stampata brutalmente nella copisteria di fiducia, a un inchiostro, su carta chimica. Credo che dal punto di vista dell’editore sia una maniera di impegnarsi con il pubblico, continuando a costruire significati intorno a una ricerca. Ecco, forse questo è un aspetto che vorrei saper mantenere nella linea editoriale di Palermo Publishing; riuscire sempre a  ampliare la cornice espressiva dell’artista.

Le fanzine sono sempre state una tua passione, perché?

Le fanzine hanno la caratteristica di essere semplici da produrre, realizzate con la magia di una fotocopiatrice, con dei costi di produzione talmente ridotti da poter essere scambiate o donate . E’ per me sono state la prima via di fuga da un mercato editoriale in cui non riuscivo veramente. Mi piacciono le foto sfocate e per fortuna in fotocopia venivano stampate benissimo. Ho conquistato assegnati e photoeditors così, (s)fortunatamente non tutti.

Beyond The Dust (2018) Would (2016) Michela Palermo, selfpublished

È, più o meno, anche il modo in cui ho conosciuto il tuo lavoro. Una cosa che mi ha sempre affascinato è il tuo far ricorrere una serie di immagini in pubblicazioni diverse, farle rivivere in maniera diversa, tornare più volte in uno o più luoghi interiori, sentire la necessità di conservarli, e alla fine raccoglierli. 

Credo che ormai da tempo viviamo in un’epoca cacofonica per la fotografia. Questo rumore, io ho sentito di attraversarlo in pieno. E negli anni ho sentito l’esigenza di fotografare di meno e di lavorare con il mio archivio, cercando nelle immagini realizzate una sorta di “essenza”. 

In questa riflessione il processo creativo legato alla stampa in camera oscura mi ha sicuramente aiutato: in camera oscura si ristampa 1000 volte la stessa immagine e in qualche maniera ogni volta l’immagine cambia. Ho iniziato a lavorare con i provini, i frammenti dell’immagine, gli scarti. In questo esercizio, i pesi dell’immagine cambiano. Credo che questa pratica mi abbia aiutato a radicare una mia visione, che liberamente mi piace declinare. 

Tornando a qualcosa che avevi accennato prima, il libro di Allen non è il primo progetto editoriale a cui avete lavorato insieme. Prima ci sono state, appunto, anche con lui, delle fanzine…

Allen scrive  delle poesie e abbiamo realizzato tre zines che comprendono alcune delle sue poesie e delle immagini. Si trattava di edizioni piccolissime, 1 di 100. Di un progetto, con delle immagini trovate in dei mercatini a Roma, Allen ha poi sviluppato un progetto editoriale con Meteoro Editions, una casa editrice dedicata alla fotografia vernacolare. 

Whereupon è una parola difficile da tradurre in italiano, mi spieghi meglio il suo significato e come mai l’avete scelta per il titolo del libro?

Credo si possa tradurre con “E quindi”. Non è una parola usata nella lingua parlata, ha più a che fare con lo storytelling, come l’espressione “Once upon a time”. Era il titolo della mostra in galleria, ci sembrava potesse funzionare benissimo per il libro – e per l’inizio del catalogo della casa editrice 😉

La fanzine amplifica il titolo, aggiungendo la parola Turmoil, anche questa una parola molto forte.

Turmoil era il nome della compagnia teatrale di Allen e perché la fanzine – e il programma intorno- voleva esplorare  questo l’aspetto performativo  del lavoro di Allen, è venuto fuori questo nuovo titolo.

L’attenzione discreta ai gesti, ai modi di occupare lo spazio, alle relazioni fra le persone mi sembrano il cuore delle composizioni di Allen Frame, come si relazionano le sue fotografie da un lato alla sua attività di regista teatrale e dall’altro alla dinamica della realizzazione del libro?

Credo in maniera un po’ esaustiva, il lavoro di Allen sia particolarmente legato al processo di “cura”: alla capacità di creare uno spazio sicuro in cui i soggetti riescono a muoversi e innescare dinamiche nuove, semplicemente perché messi a confronto e in un’accettazione reciproca dei ruoli. In questo, Allen è stato per me ancora maestro, a cui sono infinitamente  riconoscente. Come a te e al tempo di questa intervista.