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Più volte nei suoi interventi pubblici Anna Maria Ortese ha denunciato i delitti dell’uomo “contro la Terra”, la sua “cultura d’arroganza”, la sua attitudine di padrone e torturatore “di ogni anima della Vita”. E lo ha fatto pur nella consapevolezza che il suo grido d’allarme sarebbe stato accolto con impaziente condiscendenza da chi sembra ignorare che ciò che rende l’uomo degno di sopravvivere è la sua “struttura morale: intendendo per morale ogni invisibile suo rapporto, ma buon rapporto, con la vita universale”. Quel che ignoravamo è che tali interventi, che additavano nello sfruttamento e nel massacro degli animali, nella natura offesa e distrutta il nostro più grande peccato, non erano isolate e volenterose prese di posizione, bensì la punta emergente di un iceberg. Un iceberg rappresentato da decine e decine di scritti inediti, nei quali la Ortese è andata con toccante tenacia depositando quel che le dettava la sua “coscienza profonda”, vale a dire la memoria, riservata a pochi e supremamente impopolare, “delle “prime cose” preesistenti l’universo” – in altre parole, la visione che la abitava. Scritti di cui qui si offre una calibrata selezione e che nel loro insieme si configurano come un vero e proprio trattato sull’unica religione cui la Ortese sia stata caparbiamente fedele: la religione della fraternità con la natura.
Anna Maria Ortese, L’animale che dunque sono
Adelphi, 2016
14.5 x 21.7 cm
271 pagine
Copertina morbida
Italiano
ISBN 978-8845930706