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Studio Bayard, collettivo di fotografi e laboratorio specializzato in tecniche di stampa fotografica

Avete aperto Studio Bayard da poco più di 2 anni: qual è la vostra storia e cosa vi ha spinto ad aprire una realtà come la vostra?

Studio Bayard è nato nel 2021 un pò per caso e un pò per necessità: nessuno di noi aveva programmato di aprire uno studio ma una serie di eventi ci ha portati, a fine Dicembre 2020, a entrare per la prima volta nel nostro spazio di Via Muzio Attendolo, al Pigneto, che dopo pochi mesi era già pieno di cose. Poco tempo prima aveva chiuso la scuola dove Carlotta lavorava come docente e responsabile del laboratorio, così abbiamo deciso di acquistare in blocco una buona parte delle attrezzature della loro camera oscura che sono poi rimaste parcheggiate temporaneamente in tre case diverse per qualche tempo, invadendo diversi spazi domestici. La necessità di ricollocare questa attrezzatura e l’idea di prendere questa occasione per organizzare uno studio ci hanno portato a cercare un locale dove costruire un laboratorio-camera oscura che potesse funzionare anche come spazio di lavoro. Alessandro, reduce dall’esperienza di smart working durante il Covid-19, cercava un posto dove poter lavorare e il fatto che questo fosse anche un laboratorio di fotografia  analogica era il “perfect match” avendo tutti sempre lavorato e/o utilizzato pellicole e stampa tradizionale.Riassumendo quindi Studio Bayard è nato per una necessità logistica che poi, incrociando le nostre storie lavorative legate alla fotografia e ai processi di stampa, ci ha portato a declinare lo studio come  spazio di lavoro e condivisione e soprattutto come laboratorio di sperimentazione sulla stampa fotografica. E nel tempo si sta sempre più consolidando come studio di produzione, progettazione e consulenza specializzati sui procedimenti fotografici analogici e la stampa a 360°.

Camera Oscura per sviluppo e stampe fotografiche analogiche, ph. Vincenzo Farenza

E tu Giorgio? Lavori fra fotografia, progettualità, insegnamento. Raccontaci un poco più di te e come la passione per la fotografia analogica si intreccia ad altri interessi e ricerche legate alla tua pratica artistica.

La mia storia è molto legata alla fotografia analogica, ai materiali fotografici, alla camera oscura e alla dimensione di laboratorio. Questo mi permette di lavorare sulla matericità e sulla stampa come strumento per poter sperimentare nel campo visivo attraverso la chimica e la fisica dei processi fotografici. Cerco di farlo ogni volta in maniera diversa, confrontandomi con temi che sono apparentemente molto lontani, come la virtualità, ma che proprio per questo entrano in un interessante contrasto con il mezzo che di volta in volta utilizzo, cercando proprio di insinuarmi nelle contraddizioni e nelle ambiguità proprie delle immagini fotografiche. Da diversi anni ho iniziato a insegnare e questa attività, che assorbe molto spazio mentale, è in realtà un’occasione per studiare e aggiornarsi quotidianamente. La possibilità di lavorare in uno spazio come Studio Bayard mi permette di avere un luogo dove tutte queste pratiche possono prendere forma e svilupparsi anche e soprattutto grazie al confronto con gli altri: avere una porta su strada invece che su un corridoio dentro casa, fa molta differenza.

Alessandro, stare in questo studio come ha cambiato la tua vita professionale?

Per me è stata l’occasione che cercavo: avere uno spazio in cui poter lavorare a contatto con persone piene di energie e idee. Il  progetto The Mimetic Observer è un esempio concreto di una cosa che è potuta accadere solo perché c’era lo studio, inteso come luogo di incontro e di confronto permanente; l’idea iniziale di quel progetto era ben lontana da quanto abbiamo realizzato: poterne parlare in varie spontanee occasioni ci è servito a dare la forma finale. La mia attività professionale è legata a un istituto del Ministero della Cultura in cui la fotografia storica e la ricerca contemporanea si contaminano continuamente. Studio Bayard per me ne è una naturale prosecuzione, ma con un pizzico di energia e imprevedibilità che, dopo tanti anni,  rende ancora interessante occuparmi di fotografia.

Nel corso di questi ultimi mesi avete realizzato molti workshop. Raccontateci di più di queste vostre iniziative, che funzione hanno, come vengono recepite dal pubblico romano e da una cerchia più larga, a livello nazionale e internazionale?

Nonostante ogni tanto organizziamo pubblicamente dei workshop aperti, la formula che funziona di più è quella del “one-to-one”, personalizzabile nel modo in cui il partecipante preferisce. Questo consente di dedicarsi al 100% alle necessità della singola persona e costruire insieme a lei un percorso didattico efficace. Come per l’insegnamento, il costante lavoro nei workshop ti obbliga sempre ad aggiornarti, a preparare materiali e dispense, a provare nuove metodologia per tenere sempre viva la ricerca. È capitato di avere artisti e professionisti, anche dall’estero, che hanno deciso di passare un tempo più lungo a studio per sviluppare il loro progetti e trovargli insieme a noi una forma, e questa modalità è quella che sicuramente ci da più soddisfazioni. 

Le vostre professionalità permettono di spaziare in tante declinazioni della fotografia, non ultima quella del libro, cosa rappresenta per voi questo dispositivo e che esperienze personali vi legano al mondo dell’editoria?

L’ultimo libro a cui abbiamo lavorato tutti e tre insieme, The Mimetic Observer,  riassume perfettamente la nostra idea del dispositivo libro fotografico ed è stata un’esperienza che ha coinvolto tutte le nostre professionalità. In questo progetto Carlotta ha realizzato una serie di 27 opere utilizzando tre diversi processi storici fotografici: la stampa ai sali d’argento solarizzata, la cianotipia su vetro e il dagherrotipo al mercurio. Tre supporti diversi che interagiscono in maniera differente con la luce producendo degli oggetti fotografici difficilmente riproducibili. Nel libro, a cura di Alessandro e di Peter Lang, dopo un lavoro di ricerca che ha coordinato Giorgio, sono state utilizzate tre diverse carte e tecniche tipografiche per cercare di restituire questa complessità del materiale fotografico. È  stato un interessante lavoro di sperimentazione in cui stampa fotografica e stampa tipografica si sono intrecciate svolgendo un ruolo fondamentale per il progetto e cercando di interpretare nella forma libro la dimensione dell’oggetto fotografico. Da poco è uscito un altro libro, How to make jam del duo Vaste Programme, per cui abbiamo invece realizzato delle stampe effimere con la tecnica dell’antotipia, utilizzando l’estratto di more come soluzione fotosensibile.

Carlotta, nel tuo lavoro in camera oscura, stai maturando attenzione sempre maggiore verso le tecniche in dialogo con la natura. Ci racconti un poco di più di queste ricerche?

Ho iniziato ad approfondire la mia ricerca sui processi di stampa “plant-based” grazie all’ultimo progetto realizzato dai Vaste Programme. Giulia e Leonardo infatti sono entrati in studio con la domanda “Si potrebbe stampare con le more?”, dando il via ad una ricerca che si è conclusa con la realizzazione degli antotipi per la mostra e per il libro omonimo. Come in tutti i processi fotografici che utilizzo, naturali o meno, quello che mi affascina è proprio la realizzazione e lo studio che c’è dietro il perfezionamento di una tecnica, più che le immagini stampate che ne conseguono. Nel caso di questo tipo di procedimenti “vegetali” ovviamente la sperimentazione è potenzialmente infinita, basandosi su degli elementi chimici che sono comuni nella maggior parte delle piante. Oltre alla possibilità di ottenere diverse colorazioni per le stampe grazie ai diversi tipi di frutta, verdura, fiori e foglie al momento sto lavorando per creare degli sviluppi per negativi e carte fotografiche che siano a base di questi diversi elementi.

Lo Studio Bayard nasce dalla vostra collaborazione, ma l’idea di rete è parte del suo codice genetico, penso in particolare all’iniziativa di crowdfunding che vi ha permesso di di inaugurare lo studio, o a eventi come gli Studi Aperti in via Muzio Attendolo.

Dal nostro punto di vista fare rete è indispensabile e necessario per avviare qualsiasi attività: il crowdfunding è stato un modo per finanziare una parte dello studio, coinvolgere le persone e renderle subito partecipi delle nostre attività. Allo stesso modo le iniziative di Maos – Muzio Attendolo Open Studios, è una bellissima festa che trasforma la strada in un percorso a tappe lungo tutti gli studi: grazie all’organizzazione di questa cosa abbiamo creato una piccola comunità che popola via Muzio Attendolo che si aiuta e collabora, una sorta di condominio allargato. Questa iniziativa, soprattutto se in futuro riuscisse ad avere anche dei finanziamenti, secondo noi è un esempio delle potenzialità di questo quartiere: noi siamo fortunati a essere tutti su una strada, ma potendola estendere creando appunto una rete, potrebbe essere una grande risorsa per tutti.

Come pensate si stia sviluppando il quartiere del Pigneto da un punto di vista di valorizzazione della presenza di un mondo così variegato legato all’arte? E cosa secondo voi potrebbe contribuire a migliorarne l’identità, la percezione e la sua frequentazione? A trasformarlo in un vero “distretto artistico”?

Quando leggiamo certi libri sulla scena musicale o artistica di una tale città in un tale periodo storico, viene sempre il pensiero “quanto mi sarebbe piaciuto vivere in quegli anni, in quel posto”. Difficile dire se il Pigneto sia il posto giusto in cui coltivare la passione per la fotografia o l’arte in genere, sicuramente ci sono alcuni degli attori informali più significativi, penso agli studi o alle piccole realtà associative, ci sono ben tre librerie che a vario titolo si occupano di fotografia, altre due librerie specializzate, insomma non mancano gli elementi preliminari per un quartiere che possa aspirare a porsi come the place to be. Per contro, non c’è nessuna istituzione pubblica che stia investendo nella crescita culturale di questo quartiere, l’unico spazio culturale pubblico è la biblioteca comunale, la presenza massiccia di fast tourism impoverisce la qualità della vita degli abitanti. Manca un progetto che calamiti energie. Nonostante questo, grazie a una serie di fattori, il Pigneto è un’area con un grande potenziale e la presenza sempre più massiccia di attori del panorama culturale ne è la dimostrazione.

Cosa suggerireste a un giovane studente appena arrivato in città?

Di essere curioso e attento a tutto il panorama artistico e creativo che Roma oggi, più che in passato, può offrire. Di cercare una rete fatta di persone fisiche, visitando gli studi, le librerie, le gallerie e le realtà, grandi e piccole, che sono sparse per tutta la città. Di passare meno tempo sui social e andare a vedere di persona tutti questi luoghi in cui si lavora e si sperimenta.

Studio Bayard