Antonello Frongia, docente di Storia della Fotografia e Modelli e linguaggi della fotografia, Università degli Studi RomaTre
Insegni all’università degli Studi di RomaTre Modelli e linguaggi della fotografia contemporanea e Storia della fotografia, ci puoi raccontare un po’ di più dei tuoi corsi?
Il corso di Storia della fotografia, che si articola in due moduli di 6 crediti ciascuno per un totale di 72 ore di lezione, è un survey course su tutta la storia del medium dall’Ottocento all’età contemporanea. Rivolgendosi a studenti di Storia dell’arte e di Storia contemporanea che molto spesso non hanno alcuna familiarità con i linguaggi, i temi e i dibattiti della fotografia, il corso mira prima di tutto ad attivare la capacità di osservare l’oggetto fotografico e di interrogarlo in maniera pertinente. Una fotografia è prima di tutto una biografia di se stessa: in ciò che mostra, e in come lo mostra, sono presenti le tracce di decisioni (ma anche di in-decisioni) che il fotografo ha messo in campo nel lungo processo che lo ha portato a osservare, a mettere in immagine e in definitiva a celebrare quella determinata frazione del mondo. Agli studenti cerco di trasmettere la sensibilità per la scoperta di questi indizi, la disposizione a empatizzare con il fotografo, a mettersi nei suoi panni invece di proiettare sull’immagine le nostre interpretazioni o le nostre sensazioni, come invece spesso facciamo. A partire da queste osservazioni è possibile sollevare domande più specifiche – sulle intenzioni del fotografo, sui suoi modi di vedere e di rappresentare, sui suoi rapporti con la cultura del tempo – che per trovare risposte fondate richiedono di coltivare poi altri strumenti e altri tipi di indagine: la ricerca d’archivio, la storia delle idee, la storia del mondo materiale, ecc. In questo senso, una buona parte del corso non riguarda tanto la “storia della fotografia”, ma la disposizione a guardare con attenzione e con pazienza qualsiasi oggetto fotografico, mettendo da parte le presunzioni che tutti noi, semiologi nativi della ipermodernità, tendiamo a imporre alle immagini. Mi piace pensare che in questo modo gli studenti possano arrivare a guardare non solo la fotografia, ma qualsiasi immagine come la traccia di un’esperienza, come esito di un processo che in parte possiamo spiegare con i grandi quadri storici, artistici e culturali che conosciamo, ma che ogni volta si rinnova in una sorta di corpo a corpo con l’esterno e richiede un’indagine speciale. Il corso propone poi una serie di casi di studio che mirano a mostrare come le fotografie, una volta “compiute” materialmente dal fotografo, vivono in un mondo sempre mutevole di sguardi, di pubblici, di interpretazioni, che si possono davvero comprendere solo se si esce dai limiti dell’inquadratura fotografica, per occuparsi della fotografia come oggetto materiale che viaggia attraverso le culture.
Il corso di Modelli e linguaggi della fotografia contemporanea, invece, è un seminario per gli studenti magistrali dedicato ogni anno a un tema monografico diverso, nel quale cerchiamo di lavorare di più sull’acquisizione degli strumenti e dei metodi della ricerca storico-critica. Idealmente gli studenti devono imparare a progettare e condurre a termine una ricerca, nella forma di una relazione da presentare a un convegno di studiosi o di un saggio da sottoporre a una rivista scientifica. In questo processo, il punto forse più difficile è quello di mettere a punto una domanda precisa, individuare un’ipotesi di lavoro. Naturalmente ci sono prima di tutto le domande classiche di ogni ricostruzione storica: chi, che cosa, quando, ecc. Sono domande elementari, ma spesso capita di scoprire che anche opere celebri sono ancora sprovviste di queste prime informazioni. Anche un giovane studioso alle prime armi può imparare rapidamente a scoprire informazioni inedite contribuendo in maniera concreta alla conoscenza storica, e questo per me – e spero per gli studenti – è un fatto entusiasmante, che solo una disciplina relativamente giovane come la nostra può offrire. A uno stadio più avanzato, il seminario cerca poi di spingere i giovani studiosi a individuare le domande più complesse e articolate che riguardano in modo specifico il medium fotografico, a ragionare sulle fonti e sulle metodologie e a comunicare in modo efficace gli esiti della ricerca.
Come i tuoi insegnamenti entrano in relazioni con gli altri corsi della facoltà?
Gli insegnamenti che tengo sono parte integrante di un percorso di formazione universitaria che dall’archeologia e dall’arte antica arriva sino al contemporaneo, anche se naturalmente i nessi più immediati sono con i corsi che riguardano l’Otto e il Novecento. In un corso di Storia dell’arte, esplorare questi rapporti è importante per comprendere quanto i fotografi abbiano appreso dalla tradizione artistica e come essi abbiano contribuito alla nascita, alla conoscenza, alla conservazione, al restauro, alla musealizzazione e persino la falsificazione delle opere d’arte. Tuttavia la storiografia contemporanea ci insegna che le pratiche fotografiche che nascono e si esauriscono nel campo artistico, per quanto esteso, sono solo una parte di quelle che hanno inciso sulla storia della modernità. In questo senso, in classe cerchiamo di sviluppare qualche familiarità con tutte le discipline che ci possono aiutare a capire i processi di modernizzazione delle società: non solo arti, dunque, ma anche la storia, la sociologia, l’antropologia, l’architettura, l’urbanistica, fino all’estetica e alla filosofia. La speranza è che siano gli studenti stessi, nel loro percorso di studi e magari nel lavoro di ricerca per la tesi di laurea, ad approfondire qualcuno di questi ambiti.
Perché secondo te è importante intraprendere un percorso universitario che approfondisca a livello teorico la fotografia?
Perché l’università, credo, è ancora uno dei pochi luoghi in cui si può studiare la fotografia da diversi punti di vista, come parte di un sistema complessivo di problemi che riguardano la storia delle immagini e la loro attualità. E questo è importante, perché soprattutto nel nostro paese questa prospettiva allargata non trova spazio nel suo luogo naturale, che è quello del museo. Nella tua domanda, però, mi sembra di leggere un sottinteso: quando parli di “livello teorico”, mi fai pensare che l’università può essere vista come il luogo in cui si pensa e si comprende analiticamente ciò che là fuori, nel mondo reale, avviene spontaneamente, senza un pensiero strutturato, senza una “teoria”. Se in passato questo è avvenuto, non credo che oggi sia più così. È vero che nel secondo dopoguerra e soprattutto negli anni Settanta e Ottanta coloro che scrivevano e problematizzavano la fotografia in Italia erano storici e critici con impieghi accademici, mentre il fotografo era colui che arrivava a dar forma al proprio lavoro per vie empiriche, rimanendo perlopiù silenzioso o addirittura teorizzando l’importanza del non-dire. Ai professori si chiedeva la spiegazione del lavoro fotografico, il testo critico per la mostra, la recensione, insomma a loro competeva di trasformare il linguaggio muto delle fotografie in un discorso di volta in volta artistico, sociale, culturale, persino politico. In parte questo avviene ancora oggi, ma le condizioni sono cambiate. I fotografi e gli artisti che oggi hanno venti, trenta o quarant’anni si sono formati in un humus ad altissimo contenuto di “teoria”. Anzi, se mi è consentita una provocazione direi che una certa dose di teoria è diventata il lasciapassare culturale per tutti quelli che oggi dicono di occuparsi di fotografia, siano essi artisti, critici, curatori, giornalisti. Ecco, in questa situazione l’università rimane fondamentale per capire che la vera teoria, il vero pensiero teorico, non è quello che si può leggere o inventare a proprio uso saltabeccando da un testo all’altro, ma è una disciplina rigorosa, che richiede la conoscenza della storia del pensiero, della filosofia, dell’estetica. E ancora di più, l’università è il posto dove si capisce che la teoria fotografica che non nasca da un rapporto intimo con l’opera è destinata a rimanere un’affabulazione senza costrutto.
Quali senti come le “teorie” oggi più in voga e che rischiano di allontanare da un approccio rigoroso?
Non ci sono teorie o idee da mettere all’indice: non posso accusare Roland Barthes per l’uso smodato che si è fatto del suo concetto di punctum o Marc Augé per il virus che a un certo punto ha trasformato il mondo intero in un generico non-luogo. Il problema è l’uso riduttivo che viene fatto dei concetti, l’approssimazione con cui vengono utilizzati, decontestualizzati e quindi manipolati, la pigrizia intellettuale e il compiacimento di chi utilizza la teoria come scorciatoia per appropriarsi delle immagini, la letteratura fotografica senza rischi e senza coraggio, fatta con parole prese a prestito. Come ho detto, non è solo un problema di quella che una volta si chiamava “critica”. Sul versante degli autori, è un atteggiamento che si traduce in una doppia tendenza dominante: il contenutismo e lo pseudo-concettualismo. Il risultato sono opere-rebus che offrono un’esperienza poverissima malgrado l’ostentazione che fanno di se stesse, bricolages d’occasione che vorrebbero dirci molto sui grandi problemi del mondo e sulle incertezze più profonde della fotografia, ma che ripetono senza saperlo questioni che la cultura artistica del passato ha ampiamente affrontato e risolto.
Qual è la relazione fra teoria e pratica nel tuo personale percorso e cosa ti sta più a cuore trasmettere ai tuoi studenti?
A differenza delle Accademie di belle arti o di altri corsi universitari come quelli di Design e arti, di Architettura e forse del Dams, i nostri insegnamenti di storia dell’arte non prevedono l’esercizio nella pratica del medium. D’altronde è un fatto oggettivo che io non sono un fotografo, anche se lo sono stato, e che il mio rapporto con la fotografia non è, o non è più, quello del “fare”. Quello che posso insegnare è soprattutto pensare le fotografie cercando di ascoltarne la voce, se si può dire così. Ciò che di pratico ho a cuore di trasmettere agli studenti è questo: un rapporto fisico con le fotografie in tutte le loro forme, che siano in una scatola d’archivio, sul tavolo di un amico fotografo, sul muro di un museo o riprodotte in una pubblicazione. Guardare le fotografie dal di dentro, ascoltarle e provare a dar loro una voce: una voce che fatalmente non può essere che la mia, ma che non vuole essere un monologo, un discorso o, appunto, una “teoria”, quanto piuttosto un tentativo di attraversamento, una meditazione se si vuole, un “saggio” nel senso dell’essay, del “saggiare” un terreno, cioè un campo visivo e un pensiero. Di questo tipo di lavoro, credo, c’è molto bisogno, ed è proprio dell’ascolto e della voce delle generazioni più giovani che abbiamo bisogno.
Pensi sia importante far uscire i tuoi insegnamenti fuori dall’ambito dai corsi all’Università e se sì, come?
Credo che in Italia manchi ancora un vero discorso pubblico sulla fotografia, ma bisogna avere qualità eccellenti, se non eccezionali, per saper lavorare contemporaneamente con gli studenti in aula, fisicamente presenti davanti a te settimana dopo settimana, e con il “pubblico” allargato della società contemporanea, così vasto, eterogeneo e globalizzato, che legge giornali e riviste, va alle mostre, magari ascolta un programma radiofonico, ma ha anche un account Instagram e trova in rete tutto quello che desidera sapere. Quindi no, non mi reputo in grado di dare insegnamenti fuori del piccolo ambito pedagogico che è il mio mestiere. Per il resto mi limito a rispondere a situazioni specifiche, chiedendomi di volta in volta se la partecipazione a un discorso pubblico sia una forma di protagonismo o possa diventare una forma di engagement. Insomma, chiedendomi sempre se ho qualcosa da dire.
Qual è la tua relazione con la città di Roma come docente e come studioso e curatore?
Insufficiente, per mia responsabilità. Vedo qualche mostra, scambio idee con alcuni colleghi, nel tempo ho avuto modo di interagire con qualche istituzione, come ad esempio l’Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione. Anni fa avevo organizzato nel nostro dipartimento un ciclo di seminari in cui si presentavano le ricerche in corso di colleghi storici e studiosi: è stato interessante vedere che a frequentarli, ancor più che gli studenti, erano persone che a Roma lavoravano a vario titolo nel campo della fotografia. Sono state proprio queste ultime a farmi sapere che sentivano il bisogno di questo tipo di scambio. Forse è un’idea da riprendere.
Cosa suggeriresti a un giovane studente appena arrivato in città?
Di andare per musei. Tutti. E di camminare per la città. Camminare e guardare. Poi di prendere una fotografia di Roma di Antonio Caneva, o di Carlo Baldassarre Simelli, o di Alfred Stieglitz, o di William Klein, o di Luigi Ghirri; di guardarla bene con attenzione e poi provare ad andare lì dove è stata ripresa, cercare il punto esatto e mettersi proprio lì, a guardare quello che si vede o che non si vede oggi.