Atelier Futura Tittaferrante

Hai uno studio galleria a Monti, cosa ti ha spinto ad aprire questo spazio e quali sono le sue finalità?

Quando ho aperto il mio studio era il 2019, pochissimo prima del momento storico di pausa che tutti ricordiamo. Pochi anni prima avevo iniziato a lavorare sulle mie stampe,  agendoci fisicamente e trasformandole in quadri, e parallelamente avevo iniziato a scoprire quel mercato dell’arte contemporanea che definisco ‘commerciale’, e in questa scoperta mi sono studiata per bene i pro e i contro del vendere attraverso gallerie e forti commissioni, fiere, mercati di artigianato artistico, e mi sono studiata il mio pubblico. Questo percorso mi ha portata a scegliere quel quartiere con un target specifico e una forte presenza internazionale turistica, a scegliere per uno studio galleria dove potevo essere autonoma nel proporre i costi di vendita e dove potevo anche costruire in tempo reale. Allo stesso tempo, cercando una formula sostenibile economicamente ed appetibile da condividere. Le finalità del mio studio sono quelle di presentare uno spazio che manifesti il mio percorso, mi permetta di lavorarci dentro sentendomi a casa e si presenti raffinatamente. La tua storia nasce da lontano, dalla scenotecnica e dal teatro di scena da un lato e dall’esperienza della Maison 22 a Bologna. Come sei arrivata alla tua pratica di oggi? La scenografia è rimasta una nota malinconia, l’ho portata avanti come glaneuse* (per non definirmi biecamente raccattatutto e invece rivestirmi elegantemente con la citazione dal documentario ‘’La vita è un raccolto’’ di Agnes Varda) o allestitrice e decoratrice d’interni di vari spazi, tra cui il mio fino al 2014, dedicato alle residenze artistiche a Bologna: la Maison22. Poi, per caso, dal 2016 ho lavorato per un periodo non interrotto assieme ad un pittore, per produrre le immagini che facevano da base alle sue tele. Fotografavo corpi per farne dipinti ed ero costantemente immersa in un ammasso di stampe suddivise in grandi puzzle che servivano solo a preparare la linea femminile delle tele e poi venivano scartate. In quel periodo, tra stampe pennelli carte carbone e diluenti di tutti i generi, in quel marasma e in quella fotografia che non sceglievo e quindi non riconoscevo come mia, il mio entusiasmo per la materia e il riuso mi ha portato a sperimentare e a trasformare quegli scarti, dando loro una vita che finalmente gli riconoscevo. Passo dopo passo, cogliendo a piene mani dal mondo della scenografia e degli studi ed esperienze teatrali, grazie a boschi e foreste che mi hanno insegnato ad accogliere tutto imparando a distinguere e liberandomi del punto di vista puramente fotografico per guardare oltre il mirino dove sento oltre che vedere, sono arrivata ad oggi.

Valico, stampa fine art installata in cornice restaurata a mano 

E alla fotografia come sei arrivata?

Avevo deciso di ‘fare la scenografa’ da bambina, era letteralmente un sogno il mio. Poi la fotografia è stata una scelta e per spiegarti come ci sono arrivata (cioè come è diventato un lavoro oltre che una passione) devo partire dalla scenografia. Chissà cosa mi credevo quando volevo costruire bozzetti di mondi immaginari e creare ciambelle finte con la gommapiuma, volevo farlo da subito io, e pure guadagnarci. E invece, nelle mie esperienze pratiche ne ho fatte di ogni ma mi sono velocemente resa conto che per guadagnarci dovevo fare cose che non apprezzavo o mi pesavano molto e poi mi mancava la formazione tecnica: di fatto ho studiato lettere e teatro per cinque anni all’università e parallelamente seguito un corso regionale di 500 ore come scenotecnica e cercato esperienze come assistente scenografa: formazione sul campo prevede un lungo apprendimento perché si impara osservando dai maestri ma quando si ha tempo di concentrarsi fuori dalle azioni che ti vengono richieste, non c’è ‘molto’ tempo per ricevere spiegazioni o avere il tempo di sbagliare e riprovare. Ho fatto la facchina sciolto nodi costruito pattern su photoshop per dei pannelli a scorrimento, dipinto di rosso fino ad averne la nausea, pulito pennelli, ingrassato pelli, scritto a mano assieme a dei detenuti l’intero Otello su carta da parati, fatto la runner per Spoleto, non sapevo mai cosa mi aspettasse proponendomi in aiuto. Ad ogni modo mi godevo tutte queste esperienze che mi facevano scoprire il mondo e conoscevo tanto teatro d’innovazione che ignoravo esistesse, e mentre me le godevo fotografavo dettagli e momenti ogni volta che ne avevo la possibilità, che entravo in relazione. Avevo sempre la macchina fotografica con me perché la fotografia me l’aveva insegnata e suggerita papà, come passione. Lui, reporter di viaggi e familiare per vera passione e grande amatore dell’analogico, la prima cosa che mi ha spiegato è come funziona una pellicola e come agisce la luce, c’è qualcosa di maggiormente scenografico di questa magia? Posso dire che grazie a mio padre, al teatro, ai mondi che mi sono stati aperti oltre l’obiettivo quando ancora in pochi potevano accedere al dietro le quinte e pochi si proponevano di fare i fotografi di scena, mi sono creata rapidamente un portfolio raro al tempo, almeno per la mia età, e ho capito che quelle fotografie di scena potevano essere utili. In quel periodo ho costruito relazioni importanti, avevo oggetti e luoghi grazie ai quali inventarmi dei set scenografici da fotografare per comunicare le idee di altri, avevo la fantasia che correva come un cavallo e mi muovevo tanto sia con il corpo che con le idee. La fotografia mi ha permesso di assecondare questi ritmi più di quanto me lo permettesse il percorso di affiancamento scenografico, che è rimasto fondamentale e ho comunque tenuto stretto come insegnamento e portando avanti brevi lavori saltuari. Certo, non ho dovuto seguire corsi di tecnica fotografica perché avevo avuto mio papà e la sua pazienza. Inoltre, sopportavo meglio anche la fase di intenso svezzamento fotografico di bassa lega (farmi le ossa fotografando cavalli in corsa, bambine che pattinavano, fiere con luci a neon). Nella fotografia posso stare anche nel mezzo del caos, può nevicarmi in testa o possono urlarmi e corrermi attorno, ma grazie a quel corpo macchina che è una vera e propria protesi o barriera resto concentrata con me e dentro di me, fatico partendo dal mio baricentro. La fotografia è individualista e solipsistica (come la definisce la Sontag), e questo è il racconto di come spontaneamente l’ho scelta alla scenografia ma solo dopo tanti anni ho capito che l’avevo scelta anche perché creava una comfort zone per i miei limiti.

Il formato libro si interseca con te con l’opera d’arte in edizione limitata. Cosa rappresenta il libro fotografico per te e quale sua peculiare declinazione ti interessa sviluppare?

Nella maggior parte dei casi ogni lavoro che produco è irriproducibile se non scansionandolo e appiattendolo. Quando mi capita di costruire libri lo faccio come quando costruisco un basso rilievo partendo dalle stampe, ovvero stratifico e attraverso la materia, ma lo faccio su più pagine in successione. Spesso poi mi capita di partire da libri e libretti già esistenti, che hanno avuto una loro vita autonoma ed io decostruisco e trasformo, oppure semplicemente restauro, e poi riempio di nuovi racconti. A volte trafugo direttamente il loro contenuto originale e li lascio smangiati e vivificati dal furto. In tutti questi casi il libro fotografico rappresenta per me un’opera tridimensionale e analogica, è impossibile riprodurre copie di questi lavori e come dici tu il libro si interseca con l’opera in edizione limitata. Adoro quando incontro la riproduzioni di molti lavori che nascono materici e poi vengono riprodotti in copie nei libri, bisogna saperlo fare e avere grandi competenze di editing e gusto non analogico, ne nasce un linguaggio nuovo e indipendente, il racconto deve moltissimo all’impaginazione e alle carte su cui si stampa in questi casi e la foto, anche quando scatto fotografico vero e proprio e intonso, ne viene valorizzata. Il libro per ragazzi ed il libro fotografico più in generale sono i generi di libro a cui mi ispiro, negli albi per giovani ho trovato soluzioni meravigliose, ma raramente ho trovato libro fotografici per giovani e giovanissimi creativi quanto gli albi illustrati, mentre ho trovato incredibili sensibilità in alcuni libri fotografici quasi costruiti dai più giovani eppure dedicati ad un pubblico non solo adulto ma molto sensibile e con occhi e mente bene aperte. In definitiva, per risponderti, oggi sto cercando una strada che mi permetta di fondere un viaggio intrapreso con due bambini in un racconto collettivo che si rivolga ai bambini, perché la storia è costruita da bambini e nelle immagini sono presenti loro, con i loro corpi e le loro indagini nelle quale i coetanei si rispecchierebbero facilmente, ma anche ai più grandi, perché le domande che si pongono i bambini e le fotografie che ho scattato per documentare il loro viaggio, aprono riflessioni che commuoverebbero chiunque è cresciuto prima di dare per scontato ciò che abbiamo, siamo. Non c’è quindi un’unica declinazione che mi interessa sviluppare, ma se in genere costruisco piccoli teatrini sfogliabili astratti che partono e rispondono al mio intuito e non si chiedono cosa produrranno negli spettatori, per la prima volta sto sviluppando un teatro fotografico e testuale che prima di tutto si chiede e ascolta l’altro. Quello dell’albo illustrato per ragazzi è un mondo che oggi trova grande risonanza. Per soluzioni visive che vi sono adottate e per la sua stessa costruzione, è un modello molto importante anche per noi che ci occupiamo più specificamente di fotografia.

múm, Trattamento di stampa con diluente nitro e carta vetrata

Quali sono i tuoi riferimenti e come e quando li hai incontrati?

Li ho incontrati all’estero, prima di tutto in Francia, durante un lungo periodo passato assieme ad una compagnia di circo (l’Eolienne Cirque Coreografique) che possedeva una biblioteca incredibile. Ancora in Francia, ovunque: librerie, biblioteche. Allora vivevo a Bologna ed era abbastanza semplice cercarlo e trovarlo, trasferendomi anni dopo ho iniziato a cercarlo anche a Roma e a quel punto erano passati anni ed anche a Roma era diventato facile reperire materiale eccezionale, anche a Roma ci si iniziava a contare e studiare sopra senza dover arrivare nelle librerie speciali. Mi è capitata poi la fortuna di poterlo approfondire grazie alla collaborazione con la Biblioteca Attiva. In questi anni ho sfogliato libri meravigliosi, ad edizione limitata, con soluzioni incredibili, dei quali ora fatico a ricordare i titoli, hanno davvero rappresentato delle apparizioni. Ma se devo fare dei nomi, il primo che mi viene in mente in assoluto è Katsumi Komagata. Tra i titoli mi tornano spesso in mente La danse de la mer, L’onda, Madre Matto, A che pensi, Il bosco la ragazza e il lupo, Lia, Il buco (quello di Torseter), Il pentolino di Antonino, C’era una volta un cacciatore, Cuanto viven las casas… ma me ne stanno sfuggendo tantissimi. Orecchio Acerbo e Kite come case editrici che non ne sbagliano una ma anche qui, sono parziale. Poi ci sono alcune opere fotografiche per l’infanzia degli anni 70 che mi risultato uniche e antesignane come Marai Chan di Kawashima Kotori, la capacità di lettura delle immagini di Tana Hoban, La leggenda del Paradiso di Lies Wiegman e Margareta Stromstedt. E ancora un’ autrice storica, pioniera assoluta e illuminata: Anna Atkins.

Cosa suggeriresti a un giovane studente appena arrivato in città?

Se vuole fare il ‘creativo’: l’accademia di belle arti, l’università pubblica per eccellenza dedicata alle arti e ai mestieri dell’arte, un dono a roma. E assieme, proprio in contemporanea, esperienze di affiancamento tecnico/pratico, unite alle pubbliche relazioni e alle relazioni vere, sia con gli esseri umani che con la materia. In accademia o partendo dall’accademia è facile fare incontri e avere la possibilità di chiedere. E poi sfruttare i fondi regionali di formazione. È vero, è pieno di formazione specializzata sui cui investire, di meravigliose accademie con laboratori professori e macchinari luccicanti, ma credo ci sia un tempo successivo per scegliere di approfondire e investire le proprie risorse economiche, a volte fondamentali anche per autoprodursi le opere, i progetti, i portfolio. Non voglio fare la bacchettona, ma per me i percorsi pubblici nella fase di formazione e lancio restano i migliori, quando li si può avere. Da giovani si hanno le energie giuste per farsi in quattro e ‘scartavetrarsi’, termine con il quale penso sia alla nostra capacità di plasmarci che a quella di imparare a capire e sentire concretamente, superando ideali e romanticherie ma anche scavallando muri e limiti nei quali ci proteggiamo. Studiare e vedere quello che altri hanno fatto, un orizzonte sterminato di possibilità, credo sia la base di ogni azione creativa che parte dal sé, sia la base che insegna a scegliere. Nella mia esperienza ho capito che saper usare mani e strumenti, imparare fin dove possiamo spingere le nostre mani è poter creare una vita su quella base, osservare come si comunica e come riusciamo per primi noi a comunicare e a far passare dei messaggi è mettere in opera quella vita.

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